Storytelling e pensiero narrativo

L’esempio di Oliver Sacks
Il neurologo e scrittore inglese Oliver Sacks deve la sua fama al primo libro, Risvegli (1973), dal quale è stato ricavato il soggetto del film omonimo del 1990. Nel film, diretto da Penny Marshall, il dottor Sacks è interpretato da Robin Williams, mentre Robert De Niro recita la parte di uno dei pazienti. Il film racconta la storia di una scoperta scientifica e ha avuto una parte importante nella diffusione dell’approccio narrativo alla scienza divenuta, proprio a partire da quegli anni, un soggetto interessante per il cinema e per la letteratura. Prima dell’uscita del film, tuttavia, Sacks aveva pubblicato un libro molto importante per comprendere la comprensione del suo peculiare metodo di lavoro, fondato sull’utilizzo della narrazione come strumento interpretativo (Sacks, 1985).
In L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (1985), una raccolta di racconti di “casi clinici” dedicati a suoi pazienti, Sacks ha chiarito il significato del suo approccio narrativo alla neurologia, che affonda le radici nel lavoro di Alexander Luria (1968) e che è profondamente legato ad una concezione olistica dell’uomo e, in particolare, del cervello umano, ritenuto un sistema complesso e plastico, capace di modificarsi in funzione dei deficit e degli eccessi che eventuali traumi o malattie possono provocare.
È in questo senso che per Sacks la malattia avrebbe un “potenziale creativo” (1995, p. 17), che, paradossalmente, può portare alla luce risorse, sviluppi, evoluzioni e forme di vita latenti che, in sua assenza, non potrebbero mai essere osservati o immaginati.
Ci sono almeno due casi clinici, inoltre, in cui la narrazione – o, meglio, il pensiero narrativo – sembra svolgere un ruolo fondamentale nella vita dei pazienti del neurologo e, dunque, nel tipo di diagnosi e di approccio alla malattia. Sono i casi di Rebecca e del signor Thompson. Rebecca, una donna appartenente a quello che Sacks definisce “il mondo dei semplici”, ad una prima analisi “era davvero un cumulo di handicap o di incapacità (…) ma a un livello più profondo handicap e incapacità non erano più avvertiti” (1985, p. 237). Per illustrare questo fenomeno Sacks usa il racconto dei suoi incontri con la paziente, che vengono narrati in prima persona dal punto di vista del narratore, che fornisce la seguente spiegazione (1985, pp. 239-40):
Rebecca aveva ottenuto punteggi bassissimi nei test, i quali, in un certo senso, avevano come risultato non solo di scoprire, di evidenziare i deficit, ma di scomporre Rebecca in funzioni e deficit; ora, invece, misteriosamente, si era “riunita”, ricomposta.
Perché prima era così “de-composta”? Come poteva ora essere così ri-composta?
Avevo l’impressione nettissima di due modi di pensiero, o di organizzazione, o di essere, affatto diversi. Il primo, schematico – la capacità di individuare schemi e risolvere problemi, era stato appunto l’oggetto dei test e lì essa si era rivelata così minorata, così disastrosamente carente. Ma i test non avevano neanche accennato alla possibile esistenza di qualcosa di diverso dai deficit, di qualcosa che fosse, per così dire, al di là dei suoi deficit.
Non mi avevano fatto sospettare nessuna delle sue capacità positive, della sua abilità di percepire il mondo reale – il mondo della natura, e forse dell’immaginazione – come un tutto coerente, intelligibile, poetico: il suo saper vedere, pensare, e (quando poteva) vivere questo mondo (…).
Ma qual era il principio che la “ricomponeva”, che le conferiva quella compostezza? Chiaramente non era un principio schematico. Mi venne in mente la sua passione per le storie, per la composizione e la coerenza del racconto. È possibile, mi chiesi, che questo essere di fronte a me – insieme fanciulla deliziosa e idiota, minorata nelle capacità cognitive – riesca a usare un modo narrativo (o drammatico) per comporre e integrare un mondo coerente, in sostituzione del modo schematico che in lei è così carente, anzi addirittura assente? (…). Rebecca, pensai, era completa e intatta come essere “narrativo”, nelle condizioni che le consentivano di organizzarsi in modo narrativo; ed era molto importante saperlo, poiché ciò permetteva di vedere lei, e il suo potenziale, in modo del tutto diverso da quello imposto dal modo schematico.
Il signor Thompson, un paziente colpito da sindrome di Korsakov e soggetto… a un delirio di loquacità quasi frenetica, dà occasione di approfondire ulteriormente il ruolo della narrazione (Sacks, 1985, pp. 153-54):
(…) creava di continuo un mondo e un sé in sostituzione di ciò che andava di continuo dimenticato e perduto. Una frenesia del genere può mettere in evidenza capacità inventive e fantastiche eccezionali, un vero e proprio genio dell’invenzione, poiché un tale paziente deve letteralmente inventare se stesso (e il proprio mondo) ad ogni istante. Ognuno di noi ha una storia del proprio vissuto, un racconto interiore, la cui continuità, il cui senso è la nostra vita. Si potrebbe dire che ognuno di noi costruisce e vive un “racconto” e che questo racconto è noi stessi, la nostra identità.
Se vogliamo sapere qualcosa di un uomo, chiediamo: “Qual ‘è la sua storia, la sua storia vera, intima?” poiché ciascuno di noi è una biografia, una storia.
Ognuno di noi è un racconto peculiare, costruito di continuo, inconsciamente da noi, in noi e attraverso di noi – attraverso le nostre percezioni, i nostri sentimenti, i nostri pensieri, le nostre azioni; e, non ultimo il nostro discorso, i nostri racconti orali. Dal punto di vista biologico, fisiologico, noi non differiamo molto l’uno dall’altro; storicamente, come racconti, ognuno di noi è unico.
Per essere noi stessi, dobbiamo avere noi stessi – possedere, se necessario ri-possedere, la storia del nostro vissuto. Dobbiamo “ripetere” noi stessi, nel senso etimologico del termine, rievocare il dramma interiore, il racconto di noi stessi. L’uomo ha bisogno di questo racconto, di un racconto interiore continuo, per conservare la sua identità, il suo sé. Insomma, lo scienziato Sacks in questo libro compie un’operazione intellettuale coraggiosa e destinata ad avere un grande effetto su due fronti distinti e tra loro strettamente correlati.
Da una parte reintroduce la pratica dello storytelling nelle scienze esatte: l’arte di raccontare i casi clinici, infatti, era stata di fatto spazzata via dal predominio del modello logico-paradigmatico e deduttivo adottato dalla fisica.
Dall’altra ipotizza l’esistenza di un modo narrativo di pensare e di gestire il proprio corpo e la propria vita; un modo che è osservato in pazienti deficitari, i quali usano la narrazione a fronte di un deficit di logica o di memoria, ma che in realtà riguarda tutti gli esseri umani e che, dice l’autore, lo utilizzano per costruire un’immagine di sé coerente, un’identità.

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