Di Enzo Capitani
Camminano da soli. Abbondanti dosi di vita perduta sulle spalle. A tratti incontrano qualcuno. Una parola, un cenno, un momento di ascolto attento. In una giornata se ne possono incontrare molti, basta non volgere lo sguardo altrove.
Ore 7.30 la prima Messa. Pochi parrocchiani, a volte persone sole, anziani, donne che rivolgono il loro dolore ad una preghiera, uomini che passano qualche minuto prima di immergersi nel lavoro. Qualcuno si ferma per parlare, qualcun altro parla in uno sguardo, in un saluto.
Ore 9.00 il carcere. 31 persone che sono compresse in luoghi angusti. Tutti sanno com’è il carcere; parlare di sovraffollamento è diventato così comune da aver spogliato la parola del suo significato drammatico, quasi una connotazione da agenzia immobiliare. La cucina è abitabile, l’appartamento è mansardato, la camera luminosa, il carcere…sovraffollato. E come tutte le illusioni linguistiche, come tutte le parole divorate da un uso comune inconsapevole, il loro disvelamento avviene appena passata la soglia. La cucina è stretta, non abitabile; il carcere è asfissiante, non sovraffollato.
Ore 11.00 in ufficio. Mi aspetta Rosa, una signora che vive al Poggio. Tensione, conflitto, bisogno, paura, corollari ordinari di un luogo fuori dall’ordinario. Mi chiede aiuto, una storia come tante: il marito lavorava come muratore e ha perso il lavoro. Due figli di 16 e 14 anni; la necessità immediata, i libri scolastici, sottintende la paura per il loro futuro e la disperazione di non essere in grado di prendersi cura dei ragazzi. Il marito ha 48 anni e la perdita del lavoro è un macigno che scava nella stima che ha di sé, scesa sotto terra.
Ore 12.00 arriva una donna che sta per perdere la casa, mi dice. Sono sempre le donne quelle che infrangono il muro della vergogna. È indietro con il pagamento dell’affitto e lei e il marito non hanno soldi sufficienti per pagare gli arretrati. Una sola richiesta, bloccare lo sfratto imminente, e tante domande a se stessa. Perché sono qui a parlare con questo prete? Perché non ce la facciamo da soli? Dove sono lo Stato, i servizi sociali? Ne ho incontrate molte di queste situazioni, 23 (quelle che siamo riusciti a risolvere) solo negli ultimi due anni. Lo Stato i servizi sociali sono assediati dal numero dei nuovi poveri, la politica non risponde, intristita anch’essa tra impossibilità materiali e scarsa creatività.
Ore 12.30 cerco un volontario dell’associazione Le Querce di Mamre: c’è bisogno di organizzare un progetto di aiuto ad una famiglia. L’aiuto concreto consiste nel programma R3, un programma che ha permesso, fino ad ora, a 16 famiglie di Grosseto di fare la spesa in un magazzino virtuale che l’associazione gestisce. Un magazzino rifornito da persone, associazioni, commercianti, imprenditori. Un magazzino che si alimenta della solidarietà: generi alimentari eccedenti, non rispondenti ai criteri estetici di vendita, che sarebbero scartati, prendono nuova vita per chi ne ha bisogno. Perché sono buoni, non da buttare. E poi raccolte di generi alimentari da gruppi di cittadini, da istituzioni, da scuole.
Già, da scuole. La scorsa settimana una classe di bambini di una scuola per l’infanzia è venuta qui per incontrare la realtà della povertà. Tutti con un piccolo dono – i loro biscotti, le merendine – qualcosa che per loro è importante e che hanno offerto alla persone che vivono al limite. Le maestre hanno accompagnato questo gesto con una lezione sui diritti dei bambini perché la solidarietà non è pietà, è cittadinanza.
Ore 14.30 Steccaia, sede della comunità terapeutica. Incontro i ragazzi, gli ultimi 24 di una sequenza che dal 1987 ad oggi ha visto passare per questo posto oltre 600 ragazzi. Qualcuno viene dal carcere, qualcun altro dalla volontà dei genitori di non abbandonare la speranza. Non sono soli, sono una comunità; l’albero di Natale e il clima sospendono per qualche giorno il lavoro su se stessi, sulle motivazioni, sulle scelte, sulle potenzialità che vogliono risvegliare. Ma aumenta la nostalgia dei cari; la sorella con cui non si parla più da anni, il figlio affidato a qualche altra famiglia, il babbo da poco deceduto che non ha potuto vedere questa alba di riscatto della figlia appena entrata in comunità. Non sono soli, ma vorrebbero essere altrove.
Ore 16.30 di nuovo in ufficio. Antonio, sieropositivo, entra e si siede. È stanco, me lo avevano detto i volontari dell’associazione La Strada che si occupa dei malati di AIDS. Stanco e lontano, anni di convivenza con questa malattia che sembra dimenticata da tutti, ma non per lui. Gli ha portato via la compagna, morta di AIDS, lo ha reso debole e vulnerabile. Non un lavoro quotidiano, ma un quotidiano susseguirsi di atti di cura, alleggeriti da qualche momento di normalità. Fare la spesa, ma i soldi non bastano, prendere un thè con un volontario dell’associazione, fare una passeggiata nelle ore calde. Lo ascolto, lo guardo, oltrepasso il muro di sconforto e mi sorprende una piccola luce. “Domani – mi dice – farò il presepe. Non lo faccio da dieci anni, da quando Anna è morta.”
Antonio esce dall’ufficio e io mi fermo. Una giornata come le altre che a guardarla così toglie il respiro.
Sono le 19.00 e sto per andare a casa. Mentre chiudo il cancello mi avvicina un uomo di quarant’anni. Dorme al Cottolengo, nella stanza che i volontari dell’Querce di Mamre gestiscono ormai da molti anni per accogliere le persone senza dimora. È uno dei 34 accolti quest’anno. Invisibili li chiamano, ma l’attribuzione cambia la soggettività. Non è lui ad essere invisibile, perché di invisibile c’è solo quello che non si vuole vedere. È freddo e mi chiede se posso accompagnarlo in auto al Cottolengo. Ancora una storia di solitudine, di alcol, di abbandono. Ancora una storia di un lavoro che manca, di un affetto, di una relazione. Ancora una storia da ascoltare, perché lui come gli altri ha smesso di parlare, sommerso dai rumori delle vite degli altri.
Ma non c’è tempo per abbandonarsi al disagio che sento. Non c’è tempo perché queste persone sono già oltre, sono già immerse nelle loro vite. Che sono disseminate di piccoli segni vitali. Il presepe, il pensiero andato, la comunità temporanea, perfino la solidarietà tra i carcerati. La disponibilità dei cittadini, l’ascolto dei volontari, la presenza di luoghi fisici di accoglienza, tutto è cemento che costruisce ponti tra queste isole che vivono, che sperano, che cercano di diventare arcipelago.