Un approccio narrativo all'educazione interculturale

S. Giusti, Un approccio narrativo all’educazione interculturale.
Estratto da: Le risorse interculturali della scuola, con un saggio di Dario Antiseri, Lecce, ed. Pensa, 2008
1/8 Un approccio narrativo all’educazione interculturale di Simone Giusti Lo stile narrativo adottato intende favorire la “produzione  di
senso” da parte del lettore e nello stesso tempo dare voce alle
cultura “altre” che fanno continuamente irruzione nel nostro
discorso, perché non possiamo conoscere noi stessi  se non
attraverso gli “altri”.
Giuseppe Mantovani, L’elefante invisibile 1. Pensiero narrativo e scienze umane In quest’ultimo quindicennio è cresciuto constantemente l’interesse per l’approccio narrativo in
ambito pedagogico-didattico e nello studio della comunicazione, alla cui origine possiamo collocare
almeno due fenomeni: 1) il ritorno alla narrazione nelle arti e nei media; 2) l’emergere progressivo
dell’interesse per la narrazione in tutti i settori delle scienze umane.

Il ritorno alla narrazione nelle arti e nei media Sembra che i veri narratori siano scomparsi. Sono difficili da trovare dei narratori in grado di
raccogliere intorno a sé gli ascoltatori, di trasportarli nel tempo e nello spazio di un racconto,
coinvolgendoli nelle vicende di una storia, legandoli a sé col suono della voce e la fascinazione del
corpo in movimento. Si dice anche, in certi ambienti della critica e della teoria letteraria, che la
narrazione sia scomparsa perfino dal romanzo, trasformatosi in antiromanzo, romanzo-saggio,
metaromanzo, romanzo sperimentale. Nella letteratura italiana si parla di un ritorno del romanzo e
della narrazione a partire dal 1975, anno di pubblicazione di La storia di Elsa Morante. Eppure,
fuori dall’Europa, nel 1967 Gabriel Garcia Marquez pubblica Cien anos de soledad, mentre tutta
l’America Latina e l’Africa cominciano a riversare sul vecchio continente i loro grandi racconti.
Oggi, se è vero che certe figure di narratore e molte modalità di narrazione, soprattutto orale,
sono scomparse, è altrettanto vero che la narrazione si impone come situazione comunicativa e
modalità relazionale in gran parte della vita quotidiana, soprattutto in ragione della pervasività dei
media, le nuove potenti “agenzie narrative” del nostro tempo. In particolare, la tv, “probabilmente la
principale agenzia di story telling del mondo contemporaneo” (Jedlowski 2000, p. 57), sembra nata
per soddisfare la nostra fame di storie quotidiane e per fornirci infiniti stimoli a narrare nelle
conversazioni di tutti i giorni.
Facciamo degli esempi circostanziati di comunicazione narrativa a cominciare dalla radio, il
medium elettrico orale per eccellenza, che dai primi anni novanta ha conosciuto una progressiva
“narrativizzazione” della sua programmazione, inserendo in palinsesto dei programmi dove il
pubblico è esplicitamente chiamato a farsi esso stesso narratore, ovvero ascoltatore e inventore di
racconti, propagatore consapevole di storie più o meno quotidiane. Penso in particolare a due
trasmissioni assai longeve di Radio Due Rai: Il ruggito del coniglio e Alle otto della sera: il
racconto delle cose e dei fatti. La prima si configura come una serie di giochi narrativi che
forniscono degli stimoli agli ascoltatori al fine di farli divenire essi stessi narratori. Spesso lo
stimolo è costituito da una notizia di cronaca riletta in chiave umoristica e narrata dai conduttori, i
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quali poi forniscono lo stimolo: “quella volta che è successo anche a te: racconta!”. Gli ascoltatori
telefonano e raccontano, mentre tutti gli altri a loro volta, dai propri punti di ascolto, cercano di
costruire storie a partire dalla propria esperienza. La seconda trasmissione in questione si rivolge ad
un pubblico apparentemente meno “attivo”: uno studioso viene invitato a divenire narratore e a
raccontare in forma narrativa un episodio della storia, la vita di un personaggio famoso, un
fenomeno di costume. La storia si dipana su numerose puntate, ciascuna delle quali è strutturata su
sessioni narrative di pochi minuti alternate a canzoni adeguatamente selezionate. La presenza della
voce del narratore è incombente. Il narratore non cerca di dimostrare la validità di una tesi, quanto
piuttosto di affabulare, di tenere desta l’attenzione dell’interlocutore.
Alla televisione la narrazione sembra dominiare incontrastata, a partire dalle chiacchiere –
assai vicine al pettegolezzo (Jedlowski, 2000, pp. 74-80) – degli infiniti talk show in cui si
discutono fatti di cronaca e di vita quotidiana. Tra i fenomeni più interessanti si segnalano almeno i
nuovi telefilm seriali americani, le pubblicità narrative (Testa, 2000, p. 185), i reality show, e in
particolare il Grande fratello e L’isola dei famosi. Questi ultimi possono essere considerati come
scuole di lettura creativa, nelle quali gli spettatori/interlocutori sono chiamati a partecipare alla
costruzione dei personaggi, dei loro quadri di valori, la loro identità. Fino al punto di riuscire ad
effettuare delle previsioni sul loro futuro e sul loro passato, mettendone a fuoco le caratteristiche e
le possibilità di scelta. E poi, quindi, sulla base delle storie che ciascuno si immaginerà di vedere nel
prosieguo dello spettacolo della vita, gli interlocutori possono scegliere, come in un esercizio di
scrittura creativa, quali personaggi tenere e quali allontare. I reality possono essere considerati come
delle storie in fieri che si costruiscono di giorno in giorno, per la noia di coloro che sono abituati a
usare storie complesse e lontane dal proprio asfittico mondo possibile: ma ciascuno costruisce a
partire ai materiali che ha a disposizione; ciascuno conosce sulla base delle proprie preconoscenze.
Al cinema abbiamo assistito al ritorno della figura del narratore – la voce narrante – in film di
grande successo. Ricordiamo almeno Pomodori verdi fritti alla fermata del treno, esempio
straordinario di rovesciamento dell’interpretazione della storia grazie allo svelamento finale del
narratore (artificio narrativo già presente nel libro e già usato da Calvino nel Visconte dimezzato), 
Forrest Gump, tipica narrazione autobiografica nella quale il sé personaggio della storia alla fine 
coincide con il narratore, Million dollar baby, capolavoro di Clint Eastwood. Quest’ultimo in
particolare è significativo del legame stretto tra tradizione orale, rappresentata dalla presenza del
narratore nero, tipico della tradizione afroamericana, e dalla scelta di vincolare la storia al punto di
vista del narratore, che essendo interno al racconto è in grado di riferire solo ciò a cui ha potuto
assistere direttamente o che gli è stato riferito da qualcun altro. Nel cinema italiano si segnala il
successo di questa formula narrativa – alla Forrest Gump – nei film di autori toscani: Leonardo
Pieraccioni e Paolo Virzì.
Il teatro di narrazione si è imposto in Italia con il successo dei lavori di Marco Paolini, che con
la sua orazione civile sulla tragedia del Vajont ha fatto scuola e ha contribuito a creare un pubblico
nuovo. A Paolini oggi si affianca – pur con le numerose distinizioni – il lavoro di Davide Enia e di
Ascanio Celestini. Quest’ultimo si sta affermando come uno dei grandi narratori del nostro tempo,
capace di usare al medesimo fine una congerie di strumenti e mezzi. Questi autori si distinguono per
un uso assai complesso dell a narrazione, a partire dalla fase di stesura del racconto, frutto a sua
volta di sessioni di ascolto e di lettura che comportano molti atti narrativi e, quindi, relazioni. Per
scrivere e narrare Fabbrica. Racconto teatrale in forma di lettera, Ascanio Celestini ha fatto “due
anni di laboratori in giro per l’Italia”, durante i quali ha raccolto “storie isolate, frammenti che
ruotano intorno al vissuto fisico della fabbrica” (Celestini, 2003, p. ix). Autori di questo genere
sembrano prendere il ruolo – trasformandolo in mestiere – dei narratori orali che vivevano in ogni
comunità, in ogni paese. La loro scomparsa, cui accennavamo all’inizio del paragrafo, verrebbe così
compensata dalla presenza di professionisti a cui viene delegato il compito di narrare.
Per quel che riguarda la letteratura, il successo commerciale dei generi narrativi un tempo
considerati inferiori o paraletterari è la migliore dimostrazione dell’avanzata della narrativa, che
ormai sta ritrovando un ruolo anche nella ciritica letteraria e nell’accademia. Il fenomeno delle
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scuole di narrazione – si vedano almeno la pionieristica Scuola Holden fondata a Torino da
Alessandro Baricco e la scuola di narrazioni Arturo Bandini in Toscana – dà ragione di un bisogno
che è delle persone e del mondo del lavoro ad un tempo: per abitare il mondo contemporaneo è
importante essere dei narratori competenti.
L’emergere progressivo dell’interesse per la narrazione in tutti i settori delle scienze umane È stato Smorti (1994) il primo a fare il punto sulle “tendenze che hanno favorito il sorgere di
un orientamento narrativo, sia come modello scientifico che come ambito di studi” (ivi, p. 18). Tra
di esse è opportuno tenere presente almeno: 1) il cambio di paradigma verificatosi nel campo
dell’epistemologia della conoscenza scientifica (Smorti, 1994, pp. 24-26), nel quale si è cominciato
ad accettare la natura linguistica delle teorie, quindi la loro interpretabilità e la necessità di ricorrere
a una convalida da parte della comunità scientifica piuttosto che ad una verifica sperimentale (la
scienza diventerebbe così “un’impresa collettiva di attribuzione di significati”, ivi, p. 25); 2)
l’imporsi, a partire dal dibattito sul postmoderno (Lyotard, 1979) e sul pensiero debole (Vattimo e
Rovatti, 1983), di una visione depotenziata del ruolo della ragione e la conseguente apertura verso
teorie di stampo costruttivista, per le quali “la realtà è un costrutto, una concezione forgiata dal
potere della mente umana (…), ma anche in conformità con le credenze trasmesse storicamente che
sono alla base di qualsiasi cultura umana” (Bruner, 2003, p. 13).
In questo quadro, una volta ammessa la possibilità da parte della scienza di individuare nuove
modalità di conoscenza, e, soprattutto, una volta ammesso che l’uomo è comunque implicato in
quanto osservatore all’interno di qualsiasi processo di ricerca, si è cominciato a parlare della
possibilità di fornire una interpretazione narrativa della realtà.
Nell’ambito delle scienze umane Smorti (1994, pp. 30-37) fa risalire a Clifford (1988) e
Geertz (1988) una prima accurata riflessione sul carattere riflessivo e autobiografico
dell’antropologia e dell’etnografia. In queste discipline la fine di una netta separazione tra soggetto e
oggetto comporta una refvisione degli stessi prinicipi fondamentali: “avendo rinunciato alla pretesa
di descrizione obiettiva di una civiltà diversa, l’antropologo deve riconoscere di essere un
osservatore interno al sistema osservato; egli non può dunque che raccontare le proprie esperienze,
ovvero fare un’autobiografia (Smorti, 1994, p. 33). 
La stessa storiografia (Smorti, 1994, p. 33; Jedlowski, 200, pp-194-95) viene messa in crisi
dagli approcci narrativi, fino ad arrivare alle tesi estreme di White (1980) circa il carattere
“immaginario” e sostanzialmente retorico degli studi storici, che non possono essere condotto se
non in maniera narrativa. La verità storica, in fondo, non sarebbe che “un prodotto
dell’immaginazione simile alla fiction letteraria” (Smorti, 1994, p. 33); “le vicende umane –
sostiene inoltre Jedlowski (2000, p. 195) – non sono ‘storia’ in sé stesse: la storia è un ordine
artificiale costruito da colui che le narra”. Il dibattito storiografico ha fatto emergere due aspetti
importanti della narratività nelle scienze sociali: 1) lo statuto scientifico del discorso storico viene
ricondotto alla nozione di prova e procedimenti di verifica intersoggettivi (Jedlowski, 2000, p. 197);
2) il discorso storico deve fare i conti con la presenza di un punto di vista e di una voce narrante,
ovvero deve assumersi la responsabilità delle proprie scelte e delle decisioni che condizionano la
sua visione storica.
La sociologia – altra forma di discorso narrativo che si fonda su una strategia di ricerca
fondata su prove – dagli anni Novanta e in particolare, in Italia, grazie agli studi di Paolo Jedlowski
(2000), ha colto nel pensiero narrativo un efficae strumento di cognizione dell’agentività umana. Se
il campo di studio della sociologia è l’agire sociale, allora la narrazione diventa un strumento di
ricerca ideale, il solo in grado di portare alla luce il mondo dei significati nella sua complessità.
Nel campo della psicanalisi si parla di una svolta narrativa a partire dalla fine degli anni 60 del
Novecento, quando viene definitivamente superata la fiducia positivistica nella psicoanalisi come
scienza che ricerca i fatti tipico di Freud, la cui “concezione della memoria come magazzino nel
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quale i ricordi possono andare perduti (…) gli impedì di compiere una trasformazione in senso
radicamente ermeneutico e genuinamente costruttivista della sua teoria” (Smorti, 1994, p. 35): “la
rinuncia al concetto di causa ed il ricorso all’ermeneutica contribuirono a costruire una teoria della
psicoanalisi in senso narrativo” (ivi, p. 36). Intanto, nella neurologia Oliver Sacks (1985) porta alla
luce il metodo del racconto dei casi clinici di Alexander Luria (1968). Raccontando le storie
cliniche dei suoi pazienti – che spesso hanno a che fare direttamente con la narrazione, usata dalla
mente per supplire alle deficienze delle memoria a lungo termine o per colmare i vuoti del pensiero 
logico e astratto – si ha l’impressione che Sacks (1985) riesca a sintetizzare con straordinaria
efficacia e concretezza le tensioni e i conflitti tra l’approccio paradigmatico di tipo scientifico e
l’approccio narrativo.
In psicologia l’emergere di una prospettiva narrativa ha causato una vera e propria rivoluzione
che, secondo Sarbin (1986), avrebbe portato all’affermarsi di “una nuova visione del mondo”
(Smorti, 1994, p. 41) in cui sono centrali i concetti di interazione e di costruzione. A Bruner (1990)
dobbiamo la formulazione di una psicologia popolare, tesa a studiare quell’insieme di “descrizioni
più o meno interconnesse tra di loro, più o meno normative, riguardo al ‘funzionamento’ degli esseri
umani, ai meccanismi della nostra e dell’altrui mente, alle aspettative riguardo al manifestarsi
dell’azione in situazione,ai possibili modelli di vita, alla possibilità di ciascuno di rapportarsi ad essi
ecc.” (ivi, p. 47-48). La psicologia popolare è di fatto lo strumento attrav erso cui la cultura plasma
la vita e la mente dell’uomo e dà significato al suo agire “inserendo gli stati intenzionali profondi in
un sistema intepretativo” (ivi, p. 47). Secondo Bruner (1990) la psicologia popolare è organizzata su
basi narrative, e per questo occorre fondare uno studio della narrazione, della sua natura, dei suoi
aspetti cognitivi: allo scopo di studiare le modalità di costruzione del significato.
Naturalmente le conseguenze in campo pedagogico sono dirompenti. Per lo stesso Bruner
(1996) “se la narrazione deve diventare uno strumento della mente capace di creare significato,
richiede del lavoro da parte nostra: leggerla, farla, analizzarla, capirne il mestiere, sentirne l’utilità,
discuterla.” E ancora: “Solo la narrazione consente di costruire un’identità e di trovare un posto
nella propria cultura. Le scuole devono coltivare la capacità narrativa, svilupparla, smettere di darla
per scontata” (ivi, pp. 54-55).
Dalla pedagogia all’educazione degli adulti e alla formazione e orientamento scolastici e
professionali, muovendo dalle acquisizioni della psicologia culturale di Bruner, quindi dalla
rivalutazione del pensiero narrativo e, in generale, dall’avanzata delle metodologie qualitative in
ambito educativo, si è cominciato a pensare alla narrazione come ad una fondamentale risorsa
identitaria, capace di facilitare l’apprendimento di strumenti narrativi e di contribuire alla
costruzione e alla presa di consapevolezza di un patrimonio culturale condiviso. 
Infine, la letteratura, intesa come disciplina di studio, ovvero come attività di riflessione
critica e teorica sulle opere letterarie, è arrivata per ultima agli approcci narrativi. È un paradosso le
cui ragioni sono state rintracciate da Todorov (2007), il quale parla di un vero e proprio abbandono
della dimensione cognitiva dell’opera d’arte (ivi, p. 63) da parte degli stessi letterati, che avrebbero
perseguito una concezione chiusa, limitativa dell’arte e della sua interpretazione. Tuttavia, proprio
grazie all’azione della pedagogia bruneriana e della riflessione filosofica intorno al postmoderno e
all’ermeneutica, ed in ragione delle sopravvenute necessità di tornare ad un rapporto con un
pubblico (composto se non altro dagli allievi delle Facoltà di Lettere e dai nuovi insegnanti di
materie letterarie), l’approccio narrativo si è aperto un varco anche nell’accademia. Ceserani (1999)
ha messo in luce le nuove “responsabilità” (ivi, p. 202) che comporta il riconoscimento del “ruolo
fondamentale, formativo e conoscitivo, e di forte coinvolgimento etico ed estetico, svolto dal
racconto e dalla rappresentazione immaginaria nelle società umane” (Ivi, p. 392). In un quadro di
maggiore apertura all’esterno e grazie ad un approccio interdisciplinare si presenterebbero per la
narratologia – che ha contribuito in misura notevole agli studi di pedagogisti, sociologi e psicologi –
nuove prospettive di sviluppo (Todorov, 1997).
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2. Conseguenze didattiche di un approccio narrativo “Perché una via narrativa per l’educazione interculturale? Si può rispondere in tanti modi a
questa domanda, ma non v’è dubbio che senza una modalità di incontro e di scambio, ossia senza
una relazione di ascolto e una narrazione reciproca, ogni ipotesi di intercultura sarebbe impossibile
e impensabile. La narrazione è l’a priori dell’intercultura, la sua conditio sine qua non” (Nanni A.,
2004, p. 222).
La narrazione, soprattutto, non coincide con l’educazione linguistica e letteraria, così come
l’educazione interculturale non è e non deve essere l’integrazione dello straniero attraverso
l’apprendimento dell’italiano. L’educazione interculturale dovrebbe semmai costituire l’asse portante
dello stesso sistema educativo in una società complessa e multiculturale, nella quale non è
concepibile – a meno di abdicare al compito di formare dei cittadini consapevoli e critici – una
differenziazione delle educazioni (per etnia, per lingua, per classe…). La narrazione, infine, è la
garanzia che siano rispettate alcune regole e che sia mantenuta la finalità di empowerment sottesa
ad ogni processo di apprendimento:
• La contaminazione, ovvero la trasversalità dei materiali e il superamento dell’ottica disciplinare
(prima vera barriera interculturale che anche gli italiani dovrebbero superare). L’approccio
narrativo coinvolge, oltre alla letteratura e il cinema, la televisione, il fumetto, i videogiochi,
internet, la musica pop e rock, contaminando i generi e i livelli linguistici e consentendo un
primo punto di contatto e una reale condivisione di obiettivi, contenuti e competenze
(Mantegazza R., 1999, pp. 7-10).
• L’ascolto. Il senso profondo della narrazione risiede nell’essere ascoltati e nell’ascoltare. Ciò
non significa solo parlare mentre gli altri sono in silenzio: l’ascolto prevede che tutti siano co-
costrutturi dei significati attraverso un atteggiamento partecipativo  (Mantegazza R., 1999, pp.
7-10).
• La sospensione del giudizio. In campo narrativo, nessuno possiede verità definitive. In
particolare, il narratore-educatore non è colui che ha l’accesso ai veri significati, bensì un
animatore-facilitatore in grado di stimolare le narrazioni e il loro ascolto.
3. L’orientamento narrativo Muovendo dalle acquisizioni della psicologia culturale di Bruner (1990), quindi dalla
rivalutazione del pensiero narrativo e in generale dall’avanzata delle metodologie qualitative in
ambito educativo, si è cominciato a ripensare alla letteratura come ad una fondamentale risorsa
identitaria, capace di facilitare l’apprendimento di strumenti narrativi e di contribuire alla
costruzione e alla presa di consapevolezza di un patrimonio culturale condiviso. Da lunghe
sperimentazioni e riflessioni è scaturita la metodologia dell’orientamento narrativo, sorta ad opera
di letterati-pedagogisti che hanno affrontato con strumenti letterari il problema dell’orientamento
professionale, ovvero dello sviluppo di competenze progettuali e di capacità di scelta in soggetti
‘disorientati’ (Batini-Del Sarto, 2005):
Ognuno di noi è prima di tutto il risultato della propria storia: siamo «disposti» lungo un percorso cronologico,
impossibilitati e incapaci di prescindere dal tempo. Noi creiamo immagini mentali di noi stessi, degli altri, dei contesti
in cui viviamo, delle dinamiche relazionali, e su di loro basiamo le nostre strategie relazionali/sociali che si dispongono,
appunto, nel tempo. Questa stratificazione progressiva di immagini e di rappresentazioni che ci costruiamo, chiede
senza dubbio un supporto alla memoria. La memoria quindi si nutre di narrazioni: quelle che facciamo a noi stessi,
quelle che facciamo su di noi agli altri e nelle normali interazioni (narrative anch’esse). E le narrazioni, come è stato
ampiamente dimostrato, strutturano l’identità culturale, sociale e, di riflesso, personale, ponendo le basi dell’identità
professionale. 
Riteniamo infatti che non sia pensabile una sparizione dell’identità: il problema principale consiste piuttosto
nell’autoconsapevolezza e nell’efficacia della costruzione identitaria (quindi nell’attribuzione di senso e significato a
noi stessi), non nell’esistenza o meno di un’identità. Cambia semmai l’accezione con la quale possiamo riferirci
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all’identità: possiamo oggi intenderla come un percorso, come un filo interiore continuo che ci offre sicurezza e dà
consistenza (contorni) alla percezione di sé. Ecco che la letteratura – e con essa il cinema, l’arte, la fotografia, la canzone –, non più
osservata dal punto di vista comunicativo o retorico e quindi non strumentale all’apprendimento
della lingua, può recuperare una delle sue funzioni antropologiche primarie: la produzione di
significati condivisi; e divenire così uno strumento interpretativo a disposizione degli orientatori – e
di tutti gli insegnanti – per stimolare la costruzione consapevole dell’identità e per lavorare sulle
competenze chiave (Batini-Giusti, 2008). 
L’utilizzo della narrazione, infatti, ha molteplici funzioni, che corrispondono a competenze
fondamentali da acquisire per un’autodirezionalità orientativa: l’esercizio della produzione e
l’incremento della competenza narrativa divengono dunque una vera e propria «palestra
orientativa» nella quale soggettive persone possono «allenare» competenze spendibili nelle loro
esistenze reali.
Possiamo sintetizzare queste competenze nel seguente elenco:
– essere capaci di dare una struttura alla confusa realtà in cui viviamo;
– esercitare un controllo sul reale e agire di conseguenza;
– essere capaci di interpretare, funzionalmente, ciò che ci accade;
– essere capaci di esercitare previsioni sul futuro e di progettare;
– essere in grado di attribuire un senso e un significato a ciò che ci accade e a ciò che
facciamo;
– essere in grado di tenere insieme i differenti aspetti della nostra identità, anche in
modo progettuale;
– essere in grado di socializzare tutte queste competenze;
– essere in grado di negoziare con gli altri i significati che attribuiamo agli eventi, a
noi stessi, alla realtà che ci circonda;
– essere in grado di organizzare pensiero e azioni. Per ciascuna competenza – dotandosi di adeguata preparazione metodologica e di strumenti
efficaci – l’insegnante-facilitatore che mette adotta una didattica orientativa o, direttamente, il
professionista dell’orientamento, possono sfruttare le potenzialità presenti in special modo
all’interno delle comunità scolastiche, veri e propri bacini di risorse narrative e di capacità ancora
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